n tutte le ere della storia, il compito più importante di ogni essere umano è quello di vivere compiutamente "il presente". Quanto più marcata è la capacità di coglierne l'essenza, tanto più si riesce a vivere in modo adeguato. Ogni epoca, tuttavia, presenta testimonianze di individui che hanno avuto un rapporto tormentato con il "proprio" presente, perché sovrastati da stili comportamentali più consoni ad un passato, a volte prossimo, a volte addirittura remoto, inconciliabile con la mutevolezza dei tempi.
Lo stesso dicasi per coloro i quali, con le loro idee e stili di vita, i tempi li hanno addirittura precorsi.
Questa distonia esistenziale è riscontrabile tanto nei personaggi per qualsivoglia ragione passati alla storia, come Andrea Chenier, Robert Brasillach, Luigi II di Baviera, la Principessa Sissi, Hölderlin, quanto nelle persone comuni, ignote ai più.
Il ventesimo secolo, in particolare, è stato prolifico in tal senso, grazie al susseguirsi di cicli temporali che hanno marciato ad una velocità di gran lunga superiore a quella che caratterizza "l'adeguamento generazionale".

In quest’articolo parlo di un uomo che avrebbe compiuto 83  anni il 23 Aprile 2003. Il suo nome è  Lorenzo Lavorgna, uno  dei tanti uomini che ha vissuto gran parte della vita,  sicuramente gli ultimi otto  lustri, "fuori del suo tempo".
 Narra la leggenda che Sigfrido, incontrandosi con Hagen, gli  chiese se gli fosse amico o meno. Alla  risposta affermativa,  sereno, gli volse le spalle. E Hagen lo ferì mortalmente.
 Mi piace iniziare da questo episodio della "Volsungsaga", sia  per rendere omaggio a quelle lontane radici  nordiche che  accomunano tutti i Lavorgna, sia per centrare subito  l'aspetto più pregnante della  personalità di Lorenzo: la sua  incapacità di vedere il male nell'uomo, il forte bisogno di  conferire fiducia  al prossimo e la grande sofferenza nello  scoprire che l'animo umano è in grado di partorire anche  perfidia e cattiveria.

Ricordo un uomo che aveva sempre il sorriso sulle labbra,  capace di un eloquio pacato, frutto di  continue riflessioni, e  passibile di fremiti, a volte sicuramente eccessivi, solo per lo  smisurato amore  che nutriva per i suoi cari. La prima immagine che mi si dipana alla mente è un uomo
 sorridente che, in una fredda mattina di oltre quaranta anni orsono, accende dei fumogeni per evitare il  pericolo di gelo nel suo vigneto e, coadiuvato da un nutrito stuolo di increduli collaboratori, corre tra i  filari, impartendo, con calma e senza scomporsi, le direttive su come dovevano essere tenuti i  candelotti, forniti dalla Montecatini e sperimentati per la prima volta.
 Molti anni dopo, riflettendo su quell'episodio, mi resi conto che la possibile perdita del raccolto era stata  ampiamente surclassata dall'entusiasmo gioioso scaturito da quell’evento, che lo vedeva protagonista  involontario di una svolta epocale nella tutela dei prodotti agricoli dalle avversità climatiche.
Uomo d'altri tempi, appunto, per il quale l'essenza "spirituale" di ogni realtà contingente assume un'importanza di gran lunga superiore alla "consistenza pratica", destinata a produrre utile e ricchezza.
Se si fosse dedicato agli studi impegnati, Lorenzo Lavorgna, non sarebbe mai diventato un economista o un ingegnere; forse un
architetto, sicuramente un poeta.La sua gioia più profonda consisteva nle “dare” e per lui, il dilemma tra essere ed avere, non aveva senso. Che gioia il sentirsi dire che il suo vino era "insuperabile"! Uomo d'altri tempi, che si sarebbe trovato benissimo nelle Corti francesi del Seicento, come Vatel, il gran cerimoniere del Principe de Condè, capace di inventare cose mirabili solo per il gusto del bello, per stupire.
Lorenzo Lavorgna e San Lorenzello. Come sintetizzare in poche righe l'amore profondo che lo legava alle sue radici?

Basterà affermare che trasformò i suoi 23 anni di permanenza a Caserta in una sorta di continuo pendolarismo, spesso senza effettiva ragione, solo per “vivere” la sua terra? Basterà ricordare che uno dei giorni più belli della sua vita fu quello in cui sua figlia Annalisa gli confidò che lei e Feilce, il futuro marito, avevano deciso di trasferirsi proprio a San Lorenzello?
Certo, dovrei parlare degli anni Cinquanta, quelli dei grandi fermenti, della Cooperativa per l'elettrificazione delle zone rurali, dei succulenti pranzi preparati da quell'autentica forza della natura che risponde al nome di Giuseppina Federico, la moglie indomita e battagliera, il faro di una vita intera, reso ancor più luminoso quando la complessità delle umane vicende prese il sopravvento sui sogni.

Sarebbe troppo complesso scendere nei dettagli e basterà dire che egli ha agito sempre con il cuore, da vero “romantico d’altri tempi”, a cui sarebbe piaciuto veder ricambiato con pari amore il suo amore. Ma la mutevoleza dei tempi e la repentina trasformazione della società verso le forme del moderno cinismo, gli provocò non pochi dispiaceri. Per fortuna nel 1966 un nuovo raggio di sole irradiò la casa avita di “Cancello Massone”: Annalisa, la figlia nata con il seme della maturità, quando Lorenzo aveva già compiuto il 46° anno di età.

Sembrano scolpite sulla pietra le sue parole, quando la giovinetta si avventurò nella vita politica locale: "Stai attenta, figlia mia. Comportati sempre seriamente, ma cerca di non prenderti troppo sul serio, altrimenti soffrirai tanto".
La saggezza della vecchiaia aveva partorito il monito nei confronti dell'adorata figlia, della quale conosceva bene il limite estremo oltre il quale la sua etica non l'avrebbe mai spinta, anche a costo di subire pesanti vessazioni, secondo le ferree leggi della politica.
Lorenzo Lavorgna è partito per il grande viaggio il 10 Aprile 2003 ed oggi riposa a pochi metri dall'altro figlio, Gino, che spezzò il cuore alla famiglia a pochi giorni dal suo diciottesimo compleanno, e dalla primogenita Pasqualina, che non riuscì a cogliere il tepore del suo primo sole, quando venne al mondo, nel 1950.

Tantissime persone gli hanno tributato l'estremo saluto, a testimonianza di un affetto che travalica i confini del percettibile e s'incunea in quelle sfere della coscienza, retaggio esclusivo della memoria storica di ciascuno, entro le quali a nessuno è consentito di entrare.
In tanti non lo vedevano da molti anni, perché il vecchio leone, da qualche tempo, aveva scelto il ritiro quasi assoluto nella sua dimora.

 In tanti, specialmente tra i più giovani, si sono chiesti ed hanno chiesto chi fosse, in realtà, Lorenzo  Lavorgna.
 Ciascuno ha fornito la propria percezione dell'Uomo, corroborata dai ricordi più o meno intensi, legati ad  aneddoti, antiche frequentazioni, immagini di un passato che sembra lontanissimo, nonostante possa  racchiudersi nel tenue soffio di un avvenimento che si chiama vita, sempre troppo breve, per tutti.
 Lorenzo Lavorgna era un uomo buono e mite, certo, ma era anche una splendida icona di quell'Uomo che  rappresenta l'antitesi dell’illuminista, il cui decadimento etico-morale è sotto gli occhi di tutti, perché la  natura irrazionale dell'essere umano non è stata ancora plasmata dalla volontà razionalista affermatasi nel  18° secolo, e mai lo sarà, essendo in grado solo di generare quel mostro chiamato "ipocrisia", squallido ed  incancrenito regolatore delle umane vicende.
 Lorenzo Lavorgna non sapeva cosa volesse dire "ipocrisia" e ha sempre abiurato ogni forma di apparenza,  remando contro corrente, quindi, rispetto alle leggi che governano il mondoScrivo questo ricordo con il  cuore infranto ed un nodo alla gola che spezza la voce, mentre rifletto su  cosa replicherei se qualcuno  dovesse chiedere a me chi sia stato, in realtà, Lorenzo Lavorgna.
 Quante cose potrei dire, attinte dai miei ricordi, da quelli altrui, dai suoi racconti. Come fare, però, a  trovare le parole giuste? Di qualsiasi cosa parlassi non riuscirei mai a trasmetterne la reale essenza, quella  che si poteva cogliere solo nel suo sguardo profondo, nelle brevi frasi e, in modo ancora più pregnante,  nel suono della sua voce, stupenda. Tutto ciò che potrei dire mi parrebbe sempre poco, insufficiente,  incompleto. Un vento di visioni suggestive mi travolgerebbe, negandomi ogni possibilità descrittiva. Meglio  il silenzio, allora, quel silenzio che gli era tanto caro e che pure era cosi eloquente! Il silenzio, sì, o forse  rispondere con tre semplici parole, da pronunciare volgendo lo sguardo al cielo e sorridendo come sapeva  sorridere solo lui:
"Era mio padre".

(Estratto dalla rivista "Poeti nella società" - Nr. 2 - Maggio - Luglio 2003)
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